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Incapaci di scegliere

In giovani, scuola, succede solo in italia on 27 ottobre 2017 at 10:22 am

Sì, come hanno scritto in tanti, l’obbligo di andare a prendere i figli a scuola sino ai loro quattordici anni è un insulto al buon senso. Ma non solo.

La vicenda partita da una sentenza della Corte di Cassazione di Firenze, infatti, riassume molti degli aspetti deteriori di un Paese come il nostro che ogni giorno di più sembra fermo al palo. Le parole della ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli («mamme, fatevene una ragione: dovete andare a prendere i figli a scuola») riassumono come meglio non si potrebbe molti dei difetti e delle controindicazioni contro i quali ci scagliamo quotidianamente. Per sommi capi, eccone quattro.

1) Ci lagniamo di vivere un Paese dove i più giovani non si scantano mai, restano a casa dei genitori troppo a lungo, sono pigri e svogliati e hanno bisogno di avere sempre la pappa pronta, come si diceva un tempo. Esibiamo a tal fine confronti impietosi con altri Paesi europei, dove viceversa i ragazzi lasciano il tetto paterno (e materno) molto presto. (Salvo poi disinteressarci delle ragioni strutturali per cui questo accade: Politiche pubbliche che latitano, capitolo I.)

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2) Non perdiamo occasione per indignarci dei divari di genere, sobbalziamo a ogni espressione politicamente scorretta, discutiamo animatamente se quando a capo di un dicastero c’è una signora la si debba chiamare «ministro» o «ministra». Poi la stessa titolare del ministero dell’Istruzione cade, forse senza neppure accorgersene, in un bel «mamme, fatevene una ragione: dovete andare a prendere i figli a scuola». E i padri? Forse anche i padri, di tanto in tanto, si occupano dei figli (o almeno sarebbe auspicabile costruire una società che permettesse loro di farlo più di quanto non accada oggi: Politiche pubbliche che latitano, capitolo II).

3) Ci dogliamo delle debolezze delle due più importanti agenzie di socializzazione, la famiglia e la scuola, salvo assistere a un continuo rimpallarsi di responsabilità tra l’una e l’altra. Leggiamo sgomenti studi autorevoli che illustrano la presa del potere da parte di una terza agenzia di socializzazione, più forte di tutte le altre e virtuale, quella che passa dagli smartphone dei nostri figli. Ma poi rischiamo di eliminare – per forza di legge – quel poco che resta di una sana e robusta socializzazione tra pari: dopo al scuola, andando verso casa, tra compagni di scuola. (Non sarebbe il caso di agevolare quest’ultima tipologia, anziché frenarla? Vedi alla voce orari scolastici e di lavoro, trasporti pubblici, ecc.: Politiche pubbliche che latitano, capitolo III).

4) Osserviamo orripilati i dati sull’inquinamento, discutendo dei modi migliori per ridurre l’impatto dei nostri stili di vita da adulti viziati sull’aria che respiriamo tutti, a cominciare dai più piccoli. Poi obblighiamo i genitori ad andare a recuperare i figli a scuola, naturalmente con l’auto privata (Politiche pubbliche che latitano, capitolo IV].

Questo, siamo. Un Paese al palo. Capace di scandalizzarsi e di indignarsi, per un giorno o due. Salvo poi ritornare alla rassegnazione quotidiana.

[P.S.: la fotografia che accompagna il post è stata scattata a Berlino]